Il Tar del Lazio sentenzia: improcedibile il ricorso della Ternana. Stop al risarcimento

Il Tar del Lazio sentenzia: improcedibile il ricorso della Ternana. Stop al risarcimento

Ne avevamo parlato qualche giorno fa, del fatto che il Tar del Lazio avesse tempo fino al prossimo 10 maggio per esprimere una sentenza sul caso dei ricorsi della Ternana e delle altre squadre non ripescate in cadetteria per ottenere il risarcimento per i danni causati dalla decisione presa in estate; la decisione è arrivata oggi, ma non è quella favorevole che ci si sarebbe attesi in società. 

Il Tar, infatti, ha dichiarato improcedibile il ricorso, negando di conseguenza il risarcimento alla Ternana (ma presumibilmente anche a tutte le altre squadre interessate dalla vicenda) alla quale ora rimane soltanto la possibilità di appellarsi al Consiglio di Stato, unico organo che può ribaltare la sentenza del Tar. 

Di seguito riportiamo il testo della sentenza emessa nella mattinata odierna: 

"DIRITTO

Preliminarmente deve essere esaminata la questione della sussistenza o meno della giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia in esame.

Al riguardo si rileva che con il decreto legge 5 ottobre 2018, n. 115, recante “Disposizioni urgenti in materia di giustizia amministrativa, di difesa erariale e per il regolare svolgimento delle competizioni sportive”, pubblicato il 6 ottobre 2018 ed entrato in vigore il giorno successivo, è stata introdotta (sub lettera «z-septies») una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva all’elenco di cui all’art. 133, comma 1, c.p.a., avente ad oggetto “le controversie relative ai provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche”; con riferimento a tali controversie è stata prevista, poi, la competenza funzionale inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, ampliando le ipotesi di cui all’art. 135 c.p.a., e l’applicazione del rito abbreviato di cui all’art. 119 c.p.a..

Il decreto legge non è stato convertito, né la comunicazione di mancata conversione contiene norma di disciplina transitoria.

Successivamente l’art. 1 della legge di bilancio (legge 30 dicembre 2018, n. 145), è nuovamente intervenuta in materia, reintroducendo disposizioni di contenuto analogo a quelle del decreto decaduto.

In particolare, il comma 647 ha apportato modificazioni all’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220, convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, aggiungendo, questa volta nel testo della norma che delinea l’assetto dei rapporti tra giurisdizione statale e ordinamento sportivo, la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e della competenza funzionale inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in Roma, sulle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche; è stata ribadita anche l’applicazione, in questi casi, del rito speciale di cui all’art. 119 c.p.a..

In relazione a tali controversie il legislatore ha escluso, allo stato attuale, ogni competenza degli organi di giustizia sportiva, facendo comunque salva la possibilità per il Coni e le Federazioni sportive di prevedere organi di giustizia dell’ordinamento sportivo che decidano tali questioni anche nel merito ed in unico grado, e le cui statuizioni siano impugnabili dinanzi al tribunale amministrativo regionale del Lazio.

In via transitoria è stata prevista la possibilità di riproporre innanzi al Tar, nel termine di trenta giorni dall’entrata in vigore della legge, le controversie pendenti dinanzi agli organi di giustizia sportiva aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive, introducendo a tal fine il meccanismo della translatio iudicii codificato dall’articolo 11, comma 2, del codice del processo amministrativo.

Il comma 650 ha previsto espressamente l’applicabilità delle disposizioni citate ai processi ed alle controversie in corso alla data della sua entrata in vigore.

Il presente ricorso è stato proposto dopo la pubblicazione del decreto legge n. 115/2018, poi decaduto per la mancata conversione in legge, e prima dell’entrata in vigore della legge n. 145/2018, intervenuta successivamente.

Come noto, la decadenza del decreto legge comporta che le relative disposizioni perdano efficacia ex tunc, se non ne sia disposta la salvezza dal legislatore ai sensi dell’art. 77 Cost., cosa nella specie non avvenuta espressamente.

Ciò comporterebbe, di conseguenza, l’inapplicabilità del meccanismo di cui all’art. 5 c.p.c., per il quale giurisdizione e competenza si determinano con riguardo alla legge vigente alla data della proposizione della domanda e su di esse non rilevano i successivi mutamenti normativi, in deroga alla regola dell’art. 11 disp. gen. (tempus regit actum), di tal che, essendo venuta meno retroattivamente la nuova disciplina, sulla cui base è stato presentato il ricorso, non potrebbero applicarsi le norme di nuova introduzione.

Come noto, infatti, l’art. 5 c.p.c., che dichiara irrilevanti i mutamenti delle norme sulla giurisdizione sopravvenuti nel corso del giudizio, non si applica nel caso di dichiarazione di mancata conversione del decreto legge o illegittimità costituzionale della norma sulla giurisdizione, non potendosi ravvisare una successione nel tempo delle leggi che regolano la giurisdizione a fronte del venir meno degli effetti del decreto legge a far data dalla sua entrata in vigore.

Tuttavia, la riproposizione del contenuto del decreto legge non convertito in modo quasi identico nella legge di bilancio 2018, e l’espressa previsione della sua applicazione ai processi pendenti, ben può essere interpretata nel senso di una sanatoria impropria degli effetti del decreto, consentendo di ritenere applicabili alla controversia in esame le nuove disposizioni.

Inoltre, anche con riferimento all’applicabilità o meno dell’art. 5 c.p.c. e, quindi della regola della irrilevanza dei mutamenti normativi intervenuti dopo la proposizione della domanda, la Suprema Corte ha precisato che “Il principio di irrilevanza delle sopravvenienze, stabilito dall’art. 5 cod. proc. civ., essendo diretto a favorire la “perpetuatio iurisdictionis“, non ad impedirla, trova applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adito, non anche qualora il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti, invece, l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda” (Cassazione civile, sez. II, 8/10/2014, n. 21221; Sez. Un., 16/04/2009, n. 8999; Sez. Un., sent. n. 18126 del 2005); nello stesso senso si è pronunciato il Consiglio di Stato, affermando, proprio in un caso in cui la giurisdizione del giudice amministrativo era stata introdotta da una legge entrata in vigore dopo la proposizione del ricorso, che “Il principio sancito dall’art. 5 c.p.c., secondo cui la giurisdizione si determina “con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda” trova la sua ragione d’essere in esigenze di economia processuale perché è diretto a favorire, e non già ad impedire, la “perpetuatio iurisdictionis” e trova perciò applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice adito, non invece nel caso inverso in cui il mutamento dello stato di fatto o di diritto comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda” (Consiglio di Stato, sez. VI, 18/4/2011, n. 2359).

Allorché, come nella fattispecie, alla data della domanda si è invece adito un giudice incompetente o privo di giurisdizione, che apparentemente è investito dei poteri cognitivi della causa da una legge venuta meno retroattivamente, come evidenziato dalla Suprema Corte nei precedenti citati non può più applicarsi la norma eccezionale dell’art. 5 c.p.c., relativa al caso di corretta scelta iniziale del giudice adito, ma trova invece applicazione la citata regola dell’art. 11 delle preleggi, secondo la quale rilevano le modificazioni normative che intervengono in corso di causa, attribuendo al giudice adito il concreto potere che ad esso mancava al momento della domanda.

Deve quindi concludersi per la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla controversia in esame, in applicazione delle citate norme di nuova introduzione.

Ciò premesso, deve essere esaminata la questione di legittimità costituzionale delle norme che hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sull’ammissione ai campionati, prospettata dalla Lega Professionisti Serie B.

La controinteressata ha sostenuto che la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia violerebbe l’autonomia dell’ordinamento sportivo, tutelata dagli artt. 2 e 18 della Costituzione, nella lettura datane, in particolare, dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49/2011, secondo cui “l’autonomia dell’ordinamento sportivo trova ampia tutela negli artt. 2 e 18 della Costituzione, dato che non può porsi in dubbio che le associazioni sportive siano tra le più diffuse «formazioni sociali dove [l’uomo] svolge la sua personalità» e che debba essere riconosciuto a tutti il diritto di associarsi liberamente per finalità sportive”.

Tale questione si palesa infondata.

Sotto un primo profilo, infatti, deve evidenziarsi che, già nell’assetto delineato dal decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, secondo i principi generali individuati dall’art. 1, «I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo».

Nel solco di tale principio, le disposizioni citate hanno individuato in via residuale, rispetto alla giurisdizione ordinaria sui rapporti patrimoniali e a quella sportiva sulle questioni tecniche aventi rilievo esclusivamente interno – ovvero in relazione a “l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive”-, l’ambito di competenza del giudice amministrativo, riguardante “ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’articolo 2”.

Anche di recente la giurisprudenza in materia ha ribadito, al riguardo, che “I principi generali così espressi recepiscono alcuni criteri individuati, nel tempo, da giurisprudenza e dottrina in tema di rapporti tra ordinamento sportivo ed ordinamento statuale. In particolare, l’art. 1 d.l. n. 220 del 2003 definisce l’ambito di autonomia del primo: ma, essendo comunque quello sportivo un ordinamento infra-statuale, la norma comporta che le sue peculiarità non possono sacrificare le posizioni soggettive rilevanti per l’ordinamento statuale, perché inviolabili o comunque meritevoli di tutela rafforzata in quanto non disponibili” (Cons. Stato, sentenza n. 5046 del 24 agosto 2018).

La chiave di volta di tale sistema risiede quindi nell’individuazione, o meno, di una situazione soggettiva rilevante per l’ordinamento statuale, a fronte della quale si giustifica ed anzi è indispensabile – pena, in senso contrario, semmai, l’incostituzionalità delle disposizioni in materia – la tutela innanzi all’autorità giurisdizionale statuale.

E, proprio con riferimento alla situazione soggettiva vantata dai soggetti che ambiscono all’ammissione ai campionati sportivi professionistici, la giurisprudenza amministrativa si è più volte espressa, nel senso della rilevanza di tali posizioni per l’ordinamento nazionale.

In tal senso il Consiglio di Stato ha osservato, in particolare, che, secondo la originaria versione del decreto legge n. 220 del 2003, fra le fattispecie che, essendo inserite al comma 1 dell’art. 2, potevano considerarsi sottratte alla cognizione del giudice statale, erano incluse, tra le altre, le questioni relative alla organizzazione e allo svolgimento delle attività agonistiche ed alla ammissione ad esse di squadre ed atleti.

La circostanza che, in sede di conversione del decreto legge, il legislatore abbia espunto le lettere c) e d) del comma 1 dell’art. 2, ove erano indicate le summenzionate fattispecie, come chiarito dalla stessa Corte costituzionale nella citata sentenza 11 febbraio 2011, n. 49, induce a ritenere che si sia inteso ricondurle nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Invero, la sottrazione dell’originario testo normativo si spiega se si considera che la possibilità, o meno, di essere ammessi a svolgere attività agonistica – disputando le gare ed i campionati organizzati dalle Federazioni sportive facenti capo al Coni – non è una situazione certo irrilevante per l’ordinamento giuridico generale e, come tale, non meritevole di tutela da parte di questo.

Si tratta di una questione riguardante l’organizzazione stessa delle manifestazioni sportive, con immediata e diretta incidenza su contrapposti fondamentali diritti di libertà, oltre che di posizioni soggettive di sicuro rilievo patrimoniale (Cons. Stato, sent. 6010/2011; Tar Lazio, sezione I ter, sent. nn. 12153 e 12127 del 2016).

Questo indirizzo si fonda sull’assunto che nell’attività di organizzazione di competizioni calcistiche nazionali la Figc agisce come organo delegato del Coni e dunque partecipa della natura di ente pubblico di quest’ultimo, esercitando poteri di carattere autoritativo.

Alla luce di tali considerazioni le nuove disposizioni sopra citate devono ritenersi conformi ai principi che debbono guidare il legislatore nell’istituire una nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche secondo quanto affermato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, in quanto nella materia in questione vengono in rilievo situazioni di interesse legittimo correlate a profili autoritativi dell’azione amministrativa.

Occorre rilevare, altresì, che le disposizioni della legge n. 145/2018, all’art. 1, comma 647, dopo avere attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sulle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, precisano che resta esclusa ogni competenza in materia degli organi di giustizia sportiva, fatta salva, tuttavia, “la possibilità che lo statuto e i regolamenti del CONI e conseguentemente delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, prevedano organi di giustizia dell’ordinamento sportivo che, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del presente decreto decidono tali questioni anche nel merito ed in unico grado e le cui statuizioni, impugnabili ai sensi del precedente periodo, siano rese in via definitiva entro il termine perentorio di trenta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato”.

Anche tale inciso consente di escludere una lesione effettiva e irragionevole dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, consentendo allo stesso di autoriformarsi prevedendo apposite competenze e regole procedurali per la decisione delle controversie sull’ammissione ai campionati, in tal modo ricostituendo il meccanismo della pregiudiziale sportiva che, in difetto, avrebbe potuto risultare compromesso.

Alla luce di tali considerazioni non risulta, pertanto, ravvisabile la prospettata lesione della sfera di autonomia dell’ordinamento sportivo, né, di conseguenza, possono ritenersi sussistenti rilevanti profili di incostituzionalità della nuova disciplina.

Venendo all’esame del merito, va preliminarmente rilevato il venir meno dell’interesse della ricorrente alla decisione della domanda impugnatoria, come espressamente dichiarato nel corso dell’udienza pubblica del 26 marzo 2019.

Residua, pertanto, esclusivamente l’interesse alla decisione sulla domanda risarcitoria.

Al riguardo assume rilievo preminente l’analisi della posizione soggettiva fatta valere dalla ricorrente nella procedura di ammissione.

È innanzitutto pacifico che la ricorrente, in ragione della posizione di classifica registrata nella stagione sportiva 2017/2018, era legittimata a partecipare, per merito sportivo, unicamente al campionato di Serie C.

La stessa ha lamentato in questa sede l’illegittimità dei provvedimenti per effetto dei quali è venuta meno la procedura di ripescaggio nel campionato di serie superiore e, quindi, la possibilità di essere ammessa a partecipare, all’esito dell’eventuale ripescaggio, alla Serie B.

Altrettanto indubbio è che non sussista in capo alle ricorrenti alcun diritto in senso proprio al ripescaggio, in quanto il procedimento di integrazione dell’organico del campionato superiore non risulta in alcun modo disciplinato dalle normative federali, come affermato dal Tfn nella decisione impugnata, ove si specifica che «l’art. 49 delle NOIF prima delle modifiche contestate si limitava a disciplinare il numero delle squadre facenti parte del campionato, nonché il numero delle promozioni e retrocessioni; alcuna norma invece disciplina l’obbligo o la possibilità di procedere ad integrazioni dell’organico, né sembra possibile individuare nelle ricorrenti tale diritto dal semplice fatto che le Noif individuino il numero delle squadre partecipanti ai vari campionati».

Tuttavia, nel caso di specie, è stata la Federazione Italiana Giuoco Calcio che, a fronte della vacanze nell’organico rispetto al numero di 22 squadre previsto dal citato art. 49 NOIF, ha avviato la procedura di ripescaggio, precisandone i relativi criteri con il C.U. n. 54/2018 e fissando il termine per la presentazione delle domande con successivo comunicato ufficiale, tanto che la ricorrente e altre squadre hanno potuto presentare l’istanza.

Solo a fronte di tale autodeterminazione e dell’esercizio dei poteri della Federazione Italiana Giuoco Calcio in ordine all’avvio della procedura di ripescaggio, la posizione della ricorrente ha assunto un rilievo differenziato al corretto esercizio di tali poteri.

Nella specie, trattandosi di procedura sostanzialmente concorsuale, le partecipanti lamentano la lesione di una chance di ottenimento del risultato sperato, ovvero il ripescaggio che, in ipotesi, avrebbe potuto condurre all’ammissione, alla serie superiore, di ulteriori 3 squadre (da 19 a 22), ove non fossero stati adottati i provvedimenti, poi impugnati, di riduzione dell’organico del campionato al numero di 19 squadre e di revoca della procedura in itinere.

Tuttavia, che il risultato sperato potesse essere concretamente raggiunto, almeno con un rilevante grado di probabilità, è circostanza che è rimasta del tutto indimostrata nel presente giudizio.

Come si evince dall’esame del C.U. n. 54/2018, infatti, l’esito del procedimento in questione era tutt’altro che scontato e, di contro, subordinato all’analisi di una serie di requisiti la cui sussistenza, e comparazione rispetto alla posizione delle altre aspiranti, non è stata né allegata né comprovata dalla ricorrente.

In merito è stato anche di recente ribadito dal Consiglio di Stato che la pretesa al risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione dell’interesse legittimo si fonda su una lettura dell’art. 2043 c.c. che riferisce il carattere dell’ingiustizia al danno e non alla condotta, di modo che presupposto essenziale della responsabilità non è tanto la condotta colposa, ma l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall’ordinamento ed affinché la lesione possa considerarsi ingiusta è necessario verificare attraverso un giudizio prognostico se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente spettato al titolare dell’interesse. L’obbligazione risarcitoria, quindi, affonda le sue radici nella verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed implica un giudizio prognostico in relazione al se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente o probabilmente (cioè secondo il canone del “più probabile che non”) spettato al titolare dell’interesse; di talché, ove il giudizio si concluda con la valutazione della sua spettanza, certa o probabile, il danno, in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, può essere risarcito, rispettivamente, per intero o sotto forma di perdita di chance (Consiglio di Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3657).

Su tale ultima questione, benché dall’esame della giurisprudenza in materia emergano posizioni non del tutto allineate, come evidenziato dal Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza n. 118 dell’11 gennaio 2018, che ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione della necessità, o meno, ai fini del risarcimento della chance, della prova in ordine ad un determinato grado di probabilità del raggiungimento del risultato sperato, deve tuttavia evidenziarsi che permane assolutamente prevalente, allo stato, la tesi della necessità di dimostrazione di una rilevante probabilità di successo ai fini del risarcimento.

In particolare, nella materia dei contratti pubblici, che presenta aspetti di rilevante similitudine con la fattispecie in esame, la giurisprudenza ha precisato che la risarcibilità della chance di aggiudicazione sussiste solo allorché il danno sia collegato alla dimostrazione di una seria probabilità di conseguire il vantaggio sperato dovendosi, per converso, escludere la risarcibilità allorché la chance di ottenere l’utilità perduta resti nel novero della mera possibilità.

Al fine di ottenere il risarcimento per perdita di una chance è, quindi, necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve configurarsi come conseguenza immediata e diretta (v., da ultimo, Cons. St., sez. III, 21.1.2015, n. 179; IV, 15.9.2014, n. 4674)

Secondo la giurisprudenza l’operatore può beneficiare del risarcimento per equivalente solo se la sua chance di ottenere il bene cui aspira ha effettivamente raggiunto un’apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule “probabilità seria e concreta” o anche “significativa probabilità” di conseguimento. Al di sotto di tale livello, dove c’è la “mera possibilità”, vi è solo un ipotetico danno comunque non meritevole di reintegrazione, poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto (Consiglio di Stato, sez. V, 11 luglio 2018, n. 4225; 18 giugno 2018, n. 3733; 26 aprile 2018, n. 2527 e ivi citate, in tema di pubblici concorsi, Cons. Stato, III, 27 novembre 2017, n. 5559, nonché Cass., lav., 25 agosto 2017, n. 20408; in tema di contratti pubblici, Cons. Stato, V, 7 giugno 2017, n. 2740).

Occorre, pertanto, stabilire se il pretendente sia titolare di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del procedimento, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile era destinata, in base a un criterio di normalità, ad un esito favorevole, secondo il canone del “più probabile che non”, al fine di escludere il risarcimento di mere possibilità di successo, statisticamente non significative.

Del resto, tali considerazioni si pongono in linea con l’indirizzo costantemente seguito dalla Corte di Cassazione, secondo cui risulta insufficiente anche il mero criterio di probabilità quantitativa superiore al 50% dell’esito favorevole.

La Suprema Corte ha chiarito, in merito, che rispetto alla prova del nesso causale tra comportamento illegittimo e danno risarcibile per perdita di chance, occorre attestarsi su parametri valutativi che richiedono l’apprezzamento del probabile trasformarsi della chance in reale conseguimento del beneficio in termini di “elevata probabilità, prossima alla certezza” (così, Cass. 12 maggio 2017, n. 11906; Cass. 30 settembre 2016, n. 19604; Cass. 11 maggio 2010, n. 11353; Cass. 19 febbraio 2009, n. 4052; v. anche Cass. 1 marzo 2016, n. 4014, ove il danno è stato riconosciuto sul presupposto che fosse stimabile un novanta per cento di probabilità di promozione).

Tale impostazione è stata ribadita anche di recente, affermando la necessità del rigore dei criteri di valutazione della rilevanza di un pregiudizio che è addirittura incerto nella sua reale verificazione in senso giuridico (ovverosia quale perdita di un’utilità che si avesse diritto ad avere), quale è il danno da perdita di chance (Cassazione civile, sez. lav., 9 maggio 2018, n. 11165), e della conseguente collocazione verso i range più elevati della scala probabilistica della probabilità di verificazione di cui è necessaria la prova.

Nel quadro di tali coordinate, nel caso concreto, la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare, al fine di comprovare la sussistenza di una chance risarcibile che, qualora fosse stata legittimamente espletata la procedura di ripescaggio, avrebbe avuto i necessari requisiti e una elevata probabilità di rientrare tra le squadre ammesse al campionato superiore, secondo i criteri stabiliti per la formazione della graduatoria e tenuto conto delle condizioni delle altre concorrenti.

Tale circostanza non è stata in alcun modo dedotta né provata, essendosi la ricorrente limitata a specificare i danni subiti per la mancata ammissione alla Serie B, senza offrire alcun concreto elemento di valutazione in ordine alle effettive possibilità di ripescaggio che avrebbe avuto ove la relativa procedura fosse stata condotta a termine.

Ne consegue l’infondatezza della domanda così formulata.

Peraltro, la richiesta risarcitoria non potrebbe trovare accoglimento neppure facendo applicazione dei principi in tema di nesso di causalità affermato dalla giurisprudenza e codificati dall’art. 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo, secondo il quale “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Tale disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, secondo comma, c.c., afferma che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza.

Nel caso di specie non può non evidenziarsi che la ricorrente, dopo avere ottenuto l’accoglimento dell’istanza cautelare in primo grado innanzi al TAR, in sede di appello innanzi al Consiglio di Stato, alla camera di consiglio fissata per la discussione collegiale dell’istanza, dopo la pronuncia del decreto presidenziale che ha sospeso l’ordinanza di accoglimento in primo grado, ha dichiarato di non avere più interesse alla domanda cautelare proposta innanzi al T.a.r. per il Lazio e da questo accolta con l’impugnata ordinanza n. 6357 del 2018, rappresentando, in particolare, l’oggettiva impossibilità (alla luce del notevole tempo ormai trascorso dell’inizio del campionato) di ottenerne un’esecuzione in forma specifica, tanto che il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5505/2018, sulla base di tale condotta processuale ha dichiarato improcedibile l’appello proposto dalla Lega Professionisti Serie B.

Tale condotta processuale assume rilievo sotto il profilo eziologico, costituendo fattore idoneo a precludere la risarcibilità dei lamentati danni, che avrebbero potuto essere evitati, in quanto la scelta di non coltivare l’istanza cautelare e l’espressa rinuncia ad avvalersi degli effetti della pronuncia favorevole di primo grado hanno innegabilmente contribuito alla causazione del pregiudizio lamentato.

Le considerazioni suesposte assumono rilievo dirimente ai fini della decisione della domanda risarcitoria, potendo pertanto prescindersi dall’esame della sussistenza degli ulteriori presupposti a tal fine richiesti dalla legge.

Il ricorso principale e i motivi aggiunti devono quindi essere dichiarati improcedibili con riferimento alla domanda di annullamento degli atti impugnati, mentre la domanda di risarcimento del danno deve essere respinta.

La complessità e la peculiarità delle questioni controverse giustificano la compensazione integrale tra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara improcedibili il ricorso principale ed i motivi aggiunti con riferimento alla domanda di annullamento degli atti impugnati; respinge la domanda di risarcimento del danno".